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Di La Redazione -21 Settembre 2019
Roma, 21 set – La convinzione che la flessibilità nell’ambito del lavoro favorisca l’occupazione è una delle credenze politiche ed economiche più accreditate che si è affermata in questi ultimi vent’anni, nonostante i dati disastrosi relativi all’incremento della precarizzazione ed alle condizioni nelle quali vivono, meglio sarebbe dire sopravvivono, i lavoratori.
Questa convinzione è stata legittimata dalla Commissione Europea e da accreditati istituti internazionali – come il Von Mises Institute, l’Istituto Bruno Leoni di Milano – accomunati da una specifica visione dell’economia. Difficile non ironizzare sul fatto che la protezione sociale della quale godevano milioni di italiani, che avevano un contratto a tempo indeterminato, siano stati trasformati oggi in contratti a tempo determinato o messi in cassa integrazione con prospettive nulle di riprendere il loro precedente lavoro.
Nessun lavoro stabile
D’altronde è sufficiente pensare alle recenti dichiarazioni di Emma Marcegaglia che insiste sulla necessità di ridurre i costi del lavoro per avere una idea precisa sulla volontà, in nome della flessibilità, di smantellare ogni garanzia di stabilizzazione del lavoro. Lo scopo ultimo dei moderni imprenditori consiste nella possibilità di assumere e licenziare come e quanto vogliono evitando di pagarne i costi e di dover sostenere cause in tribunale.
Quanto questa tesi in campo economico sia divenuta istituzionale lo si può desumere agevolmente facendo riferimento a due saggi pubblicati nel 1994 dall’Ocse intitolati Jobs Study, secondo i quali più rigida è la legislazione relativa al lavoro quanto più alto è il tasso di disoccupazione, conclusioni queste che sono state poi in parte rettificate all’inizio degli anni 2000 sia da parte della stessa Ocse sia da parte della Banca Mondiale.
“Le riforme”: ecco la flessibilità
In base a questi dati se ne deduce come conseguenza che se un’impresa assume personale con contratti di breve durata ha la possibilità di licenziare immediatamente il lavoratore senza sostenere alcun costo. Proprio in questa direzione sono state varate le riforme del lavoro a partire dal lontano 1997, riforme che hanno permesso progressivamente lo smantellamento dello statuto dei lavoratori riducendo ai minimi termini la protezione dei lavoratori come dimostrano in ultimo la riforma Fornero e il Jobs Act. Ancora peggio è andata in altri contesti: ad esempio nel Regno Unito non solo il datore non ha nessun obbligo di indicare un orario di lavoro, ma spesso il lavoratore viene chiamato tramite messaggio.
Tutto ciò naturalmente impedisce ai lavoratori di poter costruire una famiglia e di poter fare progetti a lunga scadenza. Questa concezione di flessibilità è la conseguenza diretta dell’affermarsi di un modello produttivo capitalistico completamente asservito alla libertà di movimento dei capitali, modello che si è gradualmente affermato negli anni 80 sia in Europa che negli Stati Uniti e che prevede che la forza lavoro si adatti continuamente allo spostamento del capitale. La flessibilità del lavoro è insomma la conseguenza diretta del dominio della finanza a livello globale.
Roberto Favazzo
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