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Non solo voti: il Pd perde anche (molti) soldi

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Di Nicola Mattei -25 Agosto 2019

ma, 25 ago – 185 deputati e 58 senatori in meno, 12 europarlamentari persi e 6 presidenti di regione lasciati sul campo, con 61 consiglieri mancanti all’appello. Gli ultimi due anni sono stati un bagno di sangue per il Pd, che dai fasti dell’era Renzi ha perso metà dei consensi e rischia ad ogni tornata elettorale di avvitarsi in un circolo vizioso senza possibilità di uscirne. Una crisi, quella dei dem, che non riguarda solo i risultati elettorali ma si estende anche alle casse del partito. Sempre più vuote, sempre più lontane dal poter sostenere quella che una volta era la macchina da guerra (e da soldi) del fu Partito Comunista Italiano.

Pd povero nella rossa Emilia

Per offrire la cifra delle difficoltà finanziarie del Partito Democratico suonano come un campanello d’allarme lo stato dei conti nella regione rossa per eccellenza. Parliamo dell’Emilia Romagna, destinata forse ad un ribaltone politiche alle prossime amministrative ma dove comunque il Pd rimane saldamente ancorato al territorio, potendo contare su una rete formale ed informale di tutto rispetto (e di ampio potere).

Nonostante ciò la situazione bilancio fra Bologna, Modena e Reggio Emilia, cuore pulsante del dominio “rosso” (un tempo più tristemente noto come “triangolo della morte”), unica zona in Italia insieme alla Toscana dove alle ultime elezioni il partito è riuscito ad imporsi, non è rosea. Tutt’altro.

C’erano una volta le Feste dell’Unità. Il luogo simbolo per eccellenza del rapporto fra l’allora Partito Comunista Italiano (poi Ds, poi Pd) e la propria base. Sfoggio di radicamento sul territorio, da qualche anno – e con variegati cambi di note – sembrano adesso diventate, laddove ancora si tengono, dei lugubri deserti. Con effetti, a cascata, dirompenti sulle casse locali che un tempo venivano rimpinguate proprio dai proventi di queste kermesse fatte di dibattiti e buon cibo emiliano. Parliamo ad esempio di Bologna, dove la locale sezione ha chiuso il 2018 con un passivo da quasi un milione proprio a causa delle perdite registrate dopo il flob della festa provinciale, costata alle casse un esborso da oltre 800mila euro. Se Bologna non ride, le due provincie limitrofe piangono. In rosso è Modena, per 300mila euro. Stesso discorso per Reggio Emilia, dove FestaReggio registra da tempo numeri in calo che si traducono in un’emorragia da 750mila euro in tre anni che diventano 1,5 milioni negli ultimi dieci. E quest’anno l’appuntamento estivo, già sfrattato dalla storia sede del Campovolo per trasferirsi in un “ridotto” nei locali della fiera cittadina, neanche si terrà: al suo posto una non meglio specificata “rassegna” in città.

I conti nazionali

Se l’Emilia è in difficoltà, la situazione sublima avvicinandosi alla sede centrale del Nazareno. Replicando, più in grande, le problematiche dei territori.

A differenza di molte sezioni periferiche, a livello nazionale il partito pubblica in maniera ordinata i propri bilanci. I quali parlano di un andamento ondivago, fatto di anni di (scarsi) avanzi di esercizio ed anni di (forti) disavanzi, specialmente in occasione delle campagne elettorali come quella per il referendum costituzionale costata la bellezza di 14 milioni. Ultimo il 2018, che dopo un “utile” superiore a 500mila euro l’anno precedente ha chiuso l’ultimo rigo con -612mila.

Non ci sono però solo i costi dell’attività politica. A pesare sono infatti, soprattutto, i “crediti” vantati nei confronti dei parlamentari, che periodicamente sono chiamati a versare al Pd una quota (solitamente di 1500 euro al mese) del proprio appannaggio. 822mila gli arretratial 31 dicembre, molti dei quali saldati nei mesi successivi. Non tutti però sono sempre così ligi al dovere. Un esempio su tutti quello di Pietro Grasso, che da transfugo verso Liberi e Uguali “scordò” di pagare il dovuto e fu condannato a farlo dal tribunale. Le pendenze verso i parlamentari, anche quando in ordine con i versamenti, non sono però roba di poco conto. Ritornando in Emilia, il Pd di Modena ha dovuto ricorrere a contratti di solidarietà per il proprio personale, oltre a ridurlo (sfruttando pensionamenti o promozioni) da 12 a 8 dipendenti. Contratti stracciati si sono invece visti nella federazione romana, che nel 2017 e dopo numerosi ritardi nel pagamento degli stipendi ha dovuto infine ricorrere ad un licenziamento collettivo. Non una novità: sempre in quell’anno i dem avevano avviato un generale sfoltimento della forza-lavoro, ricorrendo alla cassa integrazione per i “superstiti”. Colpa, come detto, della gestione Renzi e delle spese folli nella fallimentare campagna per il “Sì” al referendum costituzionale poi perso. E costato il posto, oltre a parecchi fra deputati e senatori non rieletti nel patatrac del 4 marzo 2018, anche a decine e decine di lavoratori.

Nicola Mattei

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