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BREAKING NEWS, INVASIONE PATRONAGGIO DIFENDE ONG: “NO PROVE CONTATTI CON SCAFISTI”, C’È ALARM PHONE

La toga rossa e procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, noto per i finti sequestri della Sea Watch e ora chiamato a perseguire la capitana tedesca Carola Rackete, è a Roma per un’audizione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera.


“Non è stato fino ad ora provato il preventivo accordo tra trafficanti di esseri umani ed Ong. Che non deve essere limitato ad un semplice contatto, tipo una telefonata, ma deve esserci una comunicazione del tipo: ‘stiamo facendo partire migranti, avvicinatevi e prelevateli'”, ha detto Luigi Patronaggio.

E il motivo, caro Luigi, è semplice. C’è chi riceve e smista i contatti per loro:

E’ stato creato apposta. Per fare da schermo alle Ong. Per questo è quasi impossibile trovare le prove giudiziarie. Ma quelle politiche sono evidenti. Basta un tweet per avvisare i trafficanti che una ong sta arrivando.

“Quelli libici – ha poi dichiarato Patronaggio, noto ‘esperto’ di politica internazionale – Non possono essere considerati sicuri. Non sono porti dove il migrante possa avere garantiti tutti i diritti fondamentali della persona”.

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In effetti, c’è il rischio di rimanere investiti dalle moto d’acqua. Ma, ci spieghi Patronaggio: perché, se sono ‘insicuri’, ci vanno dalla Nigeria per partire? E, comunque, c’è la Tunisia. Che è porto sicuro quanto l’Italia:

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📷Francesca Totolo@francescatotoloLe #FakeNews sulla #Tunisia non è un “porto sicuro” perché non ha firmato le conversazioni sulle protezioni dei migranti. La Tunisia 15 su 18, l’Italia 17, che non ha firmato “Convenzione sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie“. 7310:05 - 2 lug 2019

E non ci sono nemmeno i razzisti-sessisti-xenofobi italiani.

Una frase che subito crea “rumore”: proprio nel corso della conferenza stampa immediatamente successiva all’interrogatorio di Carola Rackete, Patronaggio afferma che la sua procura è impegnata nella verifica della sicurezza dei porti libici. Questo perché gli inquirenti vogliono verificare i motivi per i quali la Sea Watch è presente in acque Sar libiche e, conseguentemente, capire se vi sono contatti tra la Ong e gli scafisti. Un passaggio importante dell’inchiesta, un binario parallelo rispetto all’indagine che vede coinvolta Carola Rackete per lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza avvenuto nella notte tra sabato e domenica a Lampedusa. Un filone che vede la stessa Rackete indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La procura di Agrigento, in questi giorni, sta acquisendo tutto il materiale necessario per proseguire lungo questo sentiero delle indagini, i cui contorni vengono tracciati soprattutto nelle ore a cavallo dell’interrogatorio della ragazza tedesca. Lo stesso procuratore infatti, proprio poco dopo l’interrogatorio della capitana della Sea Watch, fa sapere di non riscontrare al momento elementi che possano portare ad un qualche stato di necessità volto a giustificare non solo la forzatura della Rackete di entrare a Lampedusa, ma anche la presenza stessa della Sea Watch in acque di competenza libiche. I porti libici possono anche considerarsi non sicuri dunque, ma è la stessa procura di Agrigento a voler verificare il motivo della presenza del mezzo dell’Ong nella Sar libica. Anche perché, a prescindere, la Sea Watch si vede rigettare, nel corso dei 15 giorni di permanenza in alto mare, sia un ricorso al Tar e sia uno alla Cedu in cui ad essere chiesto in entrambi i casi è il via libera all’ingresso in acque italiane. Un indizio che porta la procura agrigentina a non ravvisare gli estremi dello stato di necessità per l’approdo a Lampedusa.

E che la SeaWatch non sarebbe dovuta venire in Italia, lo ha spiegato Elda Turco Bulgherini, ordinario di diritto della navigazione all’Università di Tor Vergata e uno dei massimi esperti italiani in materia.

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«C’è un Codice della navigazione che, come norma di carattere generale, prevede che la polizia sul mare viene esercitata anche nei confronti delle navi straniere e quindi nelle acque territoriali italiane. Ovviamente con totale giurisdizione in questo caso dell’Italia. Ora, l’interdizione ad entrare era legata all’osservanza di una Convenzione che è quella delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che quando parla di “mare territoriale” dice che le navi straniere possono entrare nelle acque territoriali di uno Stato costiero qualora il passaggio sia “inoffensivo”. In questo caso – prosegue la docente – lo Stato italiano ritiene che il passaggio non sia inoffensivo, ma sia offensivo, in quanto una delle ipotesi previste dall’articolo 19 della Convenzione delle Nazioni Unite prevede proprio le ipotesi di immigrazione [illegale]. Quindi, sia in base alla convenzione di Montego Bay, sia in base al Codice della navigazione, sia soprattutto in base al recentissimo decreto Salvini, l’interdizione c’è stata nei confronti delle navi straniere che entrano nelle acque territoriali, nel momento in cui è stato interdetto l’ingresso in relazione al fatto che ci sia una violazione di queste di queste norme».

«La cosa – continua la Turco Bulgherini – è molto grave dal punto di vista del diritto internazionale della navigazione, perché la nave si trovava in acque Sar, cioè Search and Rescue, di un altro Paese che è quello libico, e il porto sicuro più vicino, anche volendo evitare quello libico, era quello tunisino, dopodiché, una volta entrata nelle acque Sar maltesi, avrebbe potuto andare a Malta, ma non ha voluto e si è diretta verso Lampedusa». Inoltre, come specificato dalla Convenzione Onu sul diritto del mare, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è uno dei punti che rendono «offensiva» l’entrata di una nave straniera nelle nostre acque territoriali: «Quindi – conclude l’esperta – in questo caso lo Stato costiero [l’Italia] ha tutto il diritto di ritenere nei confronti di una nave straniera che quel passaggio nelle proprie acque territoriali venga considerato offensivo e quindi può imporre alla nave di abbandonare le acque territoriali dello Stato». Qualora non lo facesse (e la Sea Watch non l’ha fatto), «naturalmente ci sono responsabilità di carattere penale – che sarà nei confronti delle persone, perché la responsabilità penale ha carattere personale – e poi ci sono anche sanzioni di carattere amministrativo».

Insomma, Sea Watch ha violato sia le leggi internazionali, frutto di trattati, sia, più importante, quelle italiane. Deve pagare. E deve prepararsi a pagare chiunque minacci di imitarla come i trafficanti umanitari di Open Arms.

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